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Ad Antiqua: il viaggio nell'antichità del moderno

Ecco qua il magnifico scritto di Luca Ciammarughi che si trova ad accompagnare il mio nuovo CD pubblicato dalla Da Vinci Publishing!




La storia della musica è fatta di corsi e ricorsi. Una delle correnti cruciali del Novecento fu il neoclassicismo, attraverso il quale compositori come Stravinskij o Prokof'ev presero le distanze dal sentimentalismo tardoromantico per poter ritrovare un'essenzialità perduta. La via neoclassica fu però soltanto una parte di una più ampia riscoperta della musica antica: a rigore, dovremmo parlare anche di neobarocco, di neorinascimento o addirittura di neomedioevo, perché è soprattutto attraverso la riscoperta delle civiltà musicali preclassiche che i compositori novecenteschi riuscirono a distaccarsi dai loro padri ottocenteschi e a trovare – attraverso la riesumazione di un lontano passato – una nuova via per la modernità. Tale nuova via aveva fra i suoi elementi più importanti il recupero di un sistema armonico alternativo alla tonalità, la modalità, e l'adozione di un ritmo tendente a travalicare la battuta e la quadratura metrica impostasi nel Settecento.

In possesso di una cultura musicale straordinaria, Benjamin Britten può essere definito neorinascimentale e neobarocco nel suo rifarsi a modelli preclassici quali John Dowland, Henry Purcell, Georg Friedrich Händel o Johann Sebastian Bach. La fascinazione per tali illustri avi, però, non si tradusse mai in una pedissequa imitazione di melodie o materiali musicali: Britten si ispirò piuttosto alle tecniche compositive. Ciò è evidente nelle tre Suites per violoncello, il cui titolo fa immediatamente pensare a Bach, ma che poi di fatto non contengono citazioni esplicite alle Suites bachiane. Il modo in cui sono costruite, inoltre, più che alla continuità discorsiva bachiana, rimanda allo stile “spezzato” dei liutisti e clavicembalisti del Seicento, caratterizzato da una particolare libertà ritmica data dall'abitudine di arpeggiare gli accordi. Nella Terza Suite, a tali modelli si fonde la fascinazione per la Russia: «Ho scritto la Terza Suite per violoncello nella primavera del 1971 per portarla in regalo a Slava Rostropovič durante il mio viaggio a Leningrado con Peter Pears»; «come tributo a Slava musicista e patriota ho basato il lavoro su temi russi: i primi tre sono presi dagli arrangiamenti di melodie popolari firmati da Čajkovskij; il quarto, detto Kontaktion, da una raccolta inglese di inni sacri slavi. […] La Suite è una successione di variazioni di temi russi». La Suite, in nove movimenti, è una sorta di diario intimo, che rispecchia una dichiarazione di poetica fatta da Britten nel 1964 in un'intervista alla BBC: «La mia più personale inclinazione non è quella di scrivere per i grandi organici. Io amo scrivere in piccolo, così posso controllare in maniera più precisa le sonorità, rifinire meglio le mie composizioni, ascoltarle nei dettagli». Come voce intima, talvolta umana, talaltra infera o celeste, è trattato il violoncello in questa Suite, che si apre con un Lento, sorta di solenne Ouverture che ha come base proprio l'inno funebre Kontaktion.Un pizzicato solitario, seguito da un silenzio, fa quasi da ossessivo basso di bordone a un canto che si sviluppa nel registro medio-grave, in un'atmosfera tormentata e mistica al contempo. La Marcia, basata sui temi čajkovskiani, inizia come una sorta di cavalcata, in rapido ritmo puntato. Ma la scrittura, rapsodica e frammentata, piena di significative pause, si distacca totalmente dai modelli ottocenteschi. Improvvise oasi contemplative interrompono il carattere aspro, a tratti volutamente violento, di questa danza. Il successivo Con moto riprende il motivo di chiusura della Marcia, sottolineando l'organicità della Suite, intessuta di temi che si rispondono da una danza all'altra. Il carattere è legato, suadente, ma mai veramente calmo: c'è costantemente la sensazione dell'Unheimlich (il “Perturbante” freudiano), che Britten condivide con Šostakovič (a cui non casualmente fece ascoltare questa Suite durante la tournée in URSS). Figure di arpeggio che richiamano quelle della prima suite bachiana aprono il quarto brano, una Barcarola in cui il rimando all'acqua, lungi dall'essere una rievocazione paesaggistica veneziana, sembra avere valore archetipico: lo stile barocco diviene allora quasi liquido amniotico. Ma l'acqua, come in Schubert (compositore cruciale per Britten), non rappresenta soltanto la nascita e la vita. Il climax centrale, concitato e quasi affanoso, rimanda all'idea di pericolo e di morte. Nel successivo Allegretto, si crea un dialogo fra le frasi in pizzicato, morbide e quasi liutistiche, e quelle con l'arco, più incisive e imponenti. Segue una Fuga inusuale: invece che rimandare al carattere astratto e pitagorico della forma, Britten crea un contrappunto intriso di lirismo effusivo. Il successivo recitativo (Fantastico) si apre invece su gesti brevi, impulsivi; il discorso è rapsodico e imprevedibile: si alternano impennate verso l'acuto, pizzicati, tremoli, arpeggi, suoni armonici, glissando. Emergono frammenti di canzoni popolari infantili, alternate a momenti quasi rabbiosi. Dopo un Moto perpetuo all'interno del quale, al modo di Bach, emerge una voce principale, la Passacaglia dà vita a un nuovo dialogo fra una voce media (più umana, che sembra implorare) e una grave (più oscura, infera). Il finale (Grant repose together with the Saints) sembra approdare finalmente a una placida, consonante serenità; ma, dopo un lieto motivo popolare, la voce dello strumento si fa nuovamente cupa. La Suite si chiude su un suono pressoché “bianco” e attonito, su bicordi che svaniscono segnando il passo di un moderno Wanderer.

Scritta fra il 1948 e il 1953, la Sonata per violoncello di Ligeti fu inizialmente disdegnata dall'Unione dei Compositori Sovietici, che ne vietò l'esecuzione pubblica perché la riteneva “troppo moderna”: soltanto negli anni ottanta venne riscoperta ed entrò a far parte del repertorio dei violoncellisti. Il primo movimento, Dialogo, fu scritto nel 1948 per una studentessa dell'Accademia “Liszt” di Budapest, Annuss Virány, di cui Ligeti si era segretamente innamorato. Nel 1953, un'altra violoncellista, Vera Dénes, chiese a Ligeti un pezzo per violoncello solo: il compositore ebbe così l'idea di aggiungere al Dialogo un Capriccio, formando così una breve Sonata in due movimenti. Il Dialogo, secondo le parole di Ligeti stesso, «è come la conversazione fra due persone, un uomo e una donna. Ho usato la corda Do, la corda Sol e la corda LA separatamente. Avevo scritto musica molto più “moderna” nel '46 e nel '47, poi nel '48 ho iniziato a pensare che avrei dovuto essere più popolare. Ho tentato in questo pezzo di scrivere una bella melodia, con un tipico profilo ungherese, ma non un canto popolare, o forse solo la metà d'esso, come in Bartók o in Kodály – in realtà, più vicino a Kodály». Adagio, rubato, cantabile, il movimento si apre con due pizzicati in doppia corda separati da un glissando. Emerge poi una melodia, alternata a sequenze in pizzicato. Ligeti si rifà ad armonie preclassiche: in particolare, al modo dorico e frigio. Un senso di mistero aleggia sul dialogo, che a poco a poco si fa più carico di pathos, per chiudersi con un'inattesa e rasserenante cadenza piccarda. Il secondo movimento, Capriccio, è, come ha affermato l'autore, «un brano virtuosistico nel mio stile successivo, più vicino a Bartók. Avevo trent'anni quando l'ho scritto. Adoravo il virtuosismo e l'ho qui portato a un limite estremo, paganiniano». I disegni saettanti, di carattere toccatistico (Presto con slancio), non formano però il tradizionale moto perpetuo: il discorso è inframmezzato da pause e, più che uno stato di euforica sicurezza, sembra fare del virtuosismo quasi la metafora della follia. Un demonismo di fondo è evidente anche nell'uso del tritono (diabolus in musica). Ligeti si rifà all'antico nei disegni polifonici di stampo bachiano, con una nota ripetuta e l'altra che forma una melodia interna, ma utilizza anche tecniche nuove, come il “tremolo sul tasto”. Repentine aperture liriche sono interrotte costantemente da gesti bruschi e veementi, in un discorso che si fa sempre più febbrile e concitato. Il brano sembra quasi concludersi in un'ambigua rareafazione sonora, ma improvvisamente la coda afferma con esuberanza (“con tutta la forza”) un inaspettato e trionfale Sol maggiore.

La Suite III “Ad Antiqua” di Cosimo Carovani rinnova l'attitudine novecentesca a ricorrere a forme preclassiche, adattandola però alla sensibilità dei giorni nostri. L'evocazione della musica rinascimentale è evidente fin dal brano iniziale: la forma del Ricercare rimanda all'emancipazione della musica strumentale nel Cinquecento, tenendo però sempre presente che essa si modellò sulla musica vocale preesistente (il mottetto e il madrigale). Il violoncello è quasi voce umana, ma – come in Britten e Ligeti – può farsi anche Altro. L'incipit, in corde doppie nel registro grave, presenta una sorta di bordone: nonostante il registro grave, l'atmosfera non è cupa, ma mistica, quasi da canto ortodosso. L'atmosfera austera è rotta da una sorta di improvvisazione alla Frescobaldi, con scale furiose. Il climax raggiunge il parossismo nel registro acuto; vi è poi il ritorno nel grave, con un episodio finale che sembra rimandare ai ricercari polifonici (Gabrieli in primis). Con la Pavana notturna, entriamo in un mondo di raffinatezze sonore in cui si incontrano gli echi di Marin Marais o Sainte-Colombe e le inquietudini della contemporaneità: senza cadere nell'edonismo, Carovani ritrova un godimento dell'istante presente immune da qualsiasi cinismo postmoderno. I richiami al passato si dipanano con affetto, senza parodia. Un basso fondamentale gravissimo apre il Cantus firmus: su di esso si innesta una linea meodica, a partire da un glissando, delineando un clima di mistero e attesa. All'uso di attacchi non convenzionali della corda si unisce la voce vera e propria dell'esecutore, in una sorta di fusione di suono e canto. La musica sembra uscire dal solco (de-lirium) e farsi espressione di forze sovrumane, fra Eros e Thanatos, con episodi che sembrano rifarsi a suggestioni extraeuropee e orientaleggianti. Il Fugato, ispirato a John Dowland, ci riporta a una dimensione contemplativa, in cui la sfida della polifonia su uno strumento usualmente monodico sembra diventare metafora di una disciplina interiore. L'inizio è austero ed essenziale, poi la scrittura si addensa e conquista il registro acuto. L'impressione di serenità e ordine è radicalmente rotta da un gesto violento. La voce si fa gutturale, rauca, per sfociare poi in un fruscio e in un sussurro finale, pizzicato. Il titolo del finale, Introduzione (Piccola Toccata) e Les Nouveaux Sauvages, richiama un celebre brano dalle Indes Galantes di Rameau. Ma, come nel caso di Britten, Carovani si guarda bene da citazioni esplicite. Se i Sauvages di Rameau, pur ispirandosi a danze degli indiani della Louisiana, si basano su stilemi del maestoso barocco francese, questi “Nuovi Selvaggi” portano più all'estremo l'aspetto dionisiaco, figli come sono del Novecento, secolo dell'esplosione della corporeità. L'introduzione si apre con un gesto ampio, quasi da Ouverture alla francese, per proseguire con un episodio toccatistico in cui domina il senso dello stupore improvvisativo. Così si conclude la Suite, o forse no: perché Carovani aggiunge un'aforistica seconda conclusione, la Johannes Pavan, in cui i delicati pizzicati trasmettono un'atmosfera di intimismo, come se sentissimo il lieve respiro della corda.

La rivisitazione del Settecento è alla base del Minuetto lento op. 66 n. 1 di Giovanni Albini. Dell'originaria danza rimangono solo le vestigia: prevale il canto, legato, con la voce scura dello strumento, che sembra quasi ribaltare le convenzioni galanti del XVIII secolo, mettendone in risalto l'oscura sensualità. Con pizzicati isolati e glissando, intervallati da brevi motivi rimico-melodici, si apre la Toccata di Davide Iammaro. Ancora una volta, il genere toccatistico porta a una libertà discorsiva in cui si alternano mèlos e episodi più spiccatamente ritmico-virtuosistici.

L'Elegia Sebastian Knigh'ille del finlandese Aulis Sallinen ci riporta a un clima oscuro e misterioso, costellato di silenzi importanti quanto i suoni. Fra pizzicati solitari, aspri bicordi e tremoli fibrillanti, la musica alterna contemplazione e inestinguibile vitalità. Fra i vari motivi-gesti, si afferma una melopea sinuosa, che a poco a poco si fa più intensa e confluisce in veementi note ribattute. Seguono dei pizzicati in pianissimo, in un progressivo rasserenarsi e in una rarefazione che porta progressivamente al silenzio.

Luca Ciammarughi

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