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Piano Music vol. 1


Esce per Sconfinarte assieme il magnifico Stefano Ligoratti, il primo volume delle mie musiche per pianoforte. In attesa del Cd fisico, qui le note di libretto di Luca Ciammarughi


I lavori pianistici di Cosimo Carovani ci mettono di fronte a un compositore che, nonostante la sua giovane età, padroneggia già una pluralità di stili e tecniche e, senza costringersi ancora in un'estetica monolitica, si concede il piacere della varietas: pur avendo assorbito tecniche e linguaggi novecenteschi – a loro volta spesso legati al recupero “neoclassico” di lessici musicali antichi – egli li mette in continuo dialogo con una sensibilità nuova, dei giorni nostri, tendente a rifiutare l'eccessivo contorcimento intellettualistico e a tradurre perfino i momenti più drammatici o malinconici con una speciale levità di sguardo, “senza nulla che pesi o che posi”.

Epigrafica è la composizione che apre questa monografia, Tema för de öppna (con sacher), lavoro del 2020 che ci introduce alle rarefatte atmosfere aeree e liquide predilette da Carovani, quasi evocando la trasparenza dell'aria della Scandinavia. Questo “tema per l'apertura” è costruito ingegnosamente sulla sovrapposizione di un basso fondamentale, sulla parola sacher, e un tema tradizionale svedese nella parte superiore. L'uso di suoni gravi da pizzicare in cordiera evidenzia già una dialettica che sarà pressoché costante nelle altre opere: quella fra una dimensione eterea e sognante, legata al fluttuare di suoni nel registro acuto, e una sorta di doppio oscuro di quei suoni – rintocchi cupi che sembrano dare voce a un inconscio più tormentato. Nella sezione finale (Incantato, pianissimo semplice come un flusso), la nota fondamentale suonata in cordiera e l'iterazione incantatoria di suoni liquidi alla mano destra si sovrappongono, in una sensuale fusione dei due opposti.

Il Monologue “L'ombra e l'artefatto” (2010) appartiene a una fase più radicalmente sperimentale del percorso di Carovani: ce ne accorgiamo fin dall'incipit, “aggressivo senza attacco come un urlo”, in cui una serie di cluster discendenti, con pedale, sembrano gettarci in un universo dominato dal caos. Ma non ci si deve lasciar ingannare: questo “monologo”, in cui il pianoforte viene utilizzato come in un moderno empfindsamer Styl per dar voce a un'espressione parlante, non ha alcuna cupezza esistenzalista; è piuttosto una sorta di gioco figurale in cui lo strumentista deve continuamente cambiare maschera, con barocca teatralità: glaciale, urlato, tempestoso, malinconico. Delicatezza e brutalità si alternano, fino al comprarire nel registro acuto di un motivo “come un carillon” dal carattere liberatorio, simile alle inflessioni orientaleggianti del Debussy di Pagodes o di alcuni Préludes. I furiosi lampi che attraversano in un batter d'occhio la tastiera rimandano anche al Ravel di Scarbo, ma sono fuochi di paglia, che sconfinano spesso in improvvisi spaesamenti, sorta di sospensioni poetiche che fanno da antidoto a quel demonismo. Fino alla fine, ombre gravi e carillon rilucenti si alternano, in una sorta di autoanalisi in cui il soggetto del monologo porta in scena i propri fantasmi e sogni.

La Sonatina n. 1 “bellum instat mœnibus”, op. 46 n. 1, ci riporta al 2020, e a quella guerra tra le mura (di casa) che abbiamo combattuto nell'anno della pandemia. Il primo movimento si apre con una breve ed enigmatica introduzione di poche battute, improvvisando, nel pianissimo, con ampi salti di registro. La musica prende poi forma in un rigoroso canone, inizialmente di austerità hindemithiana, poi progressivamente più giocoso e occhieggiante al Prokofiev neoclassico (con espliciti rimandi al basso albertino) e al jazz. I ritmi sincopati prendono a poco a poco il sopravvento, trasformando la severa polifonia iniziale in una sorta di volo della fantasia, fra momenti più concitati e altri di incantata stasi. La chiusa ci riporta agli inarticolati suoni enigmatici iniziali, come a dire: abbiamo giocato con l'immaginazione, ma la realtà è ora di fronte a noi, nella sua opacità. Il secondo movimento, Quasi Adagio, lirico, approfondisce il rapporto immaginazione/realtà partendo da una consonante melopea in fa # maggiore, piena di languida bellezza, per poi spiazzarci con vertiginose modulazioni. I ritmi in contrasto creano una sorta di rubato scritto, espressione di un flusso di pensiero che non si lascia ingabbiare in schemi rigidi. Il terzo movimento ci precipita nel “bellum” vero e proprio, il conflitto allo stato puro: ritmico, brutale, secondo le indicazioni in partitura, ha connotati bartokiani nell'esplicito primitivismo della scrittura. Eppure, quello di Carovani non è affatto epigonismo novecentesco: a poco a poco, come nel primo movimento, percepiamo che non solo il jazz, ma addirittura ritmi grunge e funky, animano il discorso, quasi trasformando quella brutalità in una dionisiaca danza dei giorni nostri, con un senso liberatorio che impedisce ogni pessimismo radicale. In questo finale, chiuso icasticamente da cinque bicordi ffff nel grave, appaiono anche improvvise meditazioni, malinconie che richiamano lo spleen da domenica pomeriggio evocato anche da Debussy nel finale dei suoi Feux d'artifice.

Quattro impressioni sul mattino, e non semplicemente “del mattino”, è il titolo dei brani op. 6 composti nel 2007. Carovani sembra voler infatti estrarre da essi una sorta di essenza del mattino, piuttosto che descrivere situazioni o paesaggi. La prima impressione, con il suo limpid sound, è basata su netti contrasti diamici (pianissimo/fortissimo) e di umore, quasi a dirci: è appena svegli che i nostri sensi sono nella loro massima potenzialità. Le impressioni sono vividissime, nel bene e nel male: di una delicatezza poetica che sembra portare con sé ancora qualcosa dai sogni notturni e al contempo di sferzante quasi nervosa energia. Nella seconda impressione, passiamo dalla percezione delle pure sensazioni al regno della coscienza e del sentimento: like a flow, un dolce motivo di bicordi si snoda fluidamente, fino a svaporare nell'acuto. Nella terza, la rugosità del reale fa irruzione in maniea decisa, in particolare nel fortissimo aggressivo finale. Il compositore chiede all'inizio di stoppare con la mano destra, dentro la cordiera, la vibrazione della corda suonata, realizzando armonici naturali di carattere impuro. L'ultima impressione presenta le vestigia delle impressioni precedenti: è tempo di dare addio al mattino, e le reminiscenze di ciò che si è vissuto e osservato fluttuano e si interrompono a vicenda come i frammenti di valzer nelle Valses nobles et sentimentales di Ravel.

Logico ma anche onirico proseguimento delle Impressioni sul mattino sono le Due impressioni sul meriggio op. 6 n. 2, anch'esse del 2007. Oltre a un meriggiare montaliano, pallido e assorto (qui esplicitamente stanco, annoiato), l'accecante luminosità del registro acuto fa venire in mente lo Straniero di Albert Camus: nel primo brano, è un meriggio quasi alienante, pericoloso, a invadere gli occhi e la mente del soggetto. La luce del sole allo zenith si stempera nel secondo, in cui agli accordi come campanelli fanno fronte fluidi trentaduesimi alla mano sinistra, fluttuanti come in un cupo Fantasiestück. Complessi sfasamenti metrici ci fanno perdere il baricentro raggiunto, ma nel finale, trionfante, un grande accordo arpeggiato chiude il dittico con inaspettata grandiosità.

All'anno successivo, 2008, risale Al chiaro, contemplazione che rimanda alle atmosfere amniotiche del Berio di Wassermusik. In questa vasta himmlische Länge, celestiale lunghezza fatta di frammenti lirici che fluttuano con una sorta di pigro piacere, Carovani non si preoccupa affatto della sintesi, ma al contrario dilata i confini della fantasticheria in una sorta di dolce naufragio, in cui il tempo degli orologi viene sostituito da un tempo vissuto come durata interiore.

Con la Sonatina n. 2 op. 46 n. 2 torniamo all'attualità del nostro 2020. Il primo movimento è weberniano nell'utilizzo di una melodia di timbri, con note isolate che si dipanano in registri lontanissimi fa loro. Sotto il segno dell'essenzialità è anche il secondo movimento, in cui fanno capolino le ritmiche minimaliste di Steve Reich, con un accordo di fa maggiore ripetuto ossessivamente (ma variato nella dinamica, dal nulla fino al fff) a cui fanno fronte, spesso sul tempo debole, altre triadi perfette. Questo gioco deleuziano di differenza e ripetizione crea un sofisticato piacere nello scoprire ogni volta i colori creati dall'accordo che varia rispetto a quello che rimane fisso. Il finale, Scale, rielabora il topos della parodia sull'esercizio pianistico alla Hanon (da Saint-Saëns e Debussy fino a Paolo Castaldi). Come in Doctor Gradus ad Parnassum di Debussy, ma in maniera epigrafica, Carovani parte da un esercizio pedante per lasciare spazio all'immaginazione, che significa asimmetria (i cambiamenti di metro da 4/4 a 13/16) e sconfinamento in modi sonori esotici – ancora una volta l'orientalismo sui tasti neri.

Al-Hamrā è un'antica città dell'Oman costruita su una lastra di roccia inclinata: essa dà il titolo all'ultima composizione di questo album, op. 49 n. 3, anch'essa del 2020, in cui ritroviamo la fascinazione per l'Oriente. Incantato lento (ma comunque molto libero e rapsodico), questo lavoro si basa su melopee che sembrano riprodurre strumentalmente il canto di un muezzin. Raffinato capriccio arabo-andaluso, intriso di quel felice meticciato musicale che attraversa il Medio Oriente e il Mediterraneo, il brano ha qualche somiglianza con la parte centrale della raveliana Alborada del Gracioso, soprattutto nella dialettica fra il canto del registro centrale e i riflessi decorativi nell'acuto. Ma ancora una volta, l'incantesimo Sine Tempore di Carovani riesce a trovare una via personale per l'espressione di un folklore che si perde nella notte dei tempi.

Luca Ciammarughi


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